TCF v2: novità, limiti e… qualche domanda
Allineare tutti i soggetti che operano nel settore della pubblicità digitale ad una stessa modalità di raccolta e trasmissione dei consensi. È questa la vocazione del Transparency Consent Framework. Un TCF che nella sua nuova versione promette più flessibilità per i professionisti e più trasparenza per gli utenti. Promesse mantenute?
Ci siamo finalmente: dopo essere stata riprogrammata a più riprese, il 30 settembre la versione 1 del Transparency Consent Framework (TCF) cede definitivamente il posto alla versione 2. Formulato dall’IAB, il TCF si propone di standardizzare la raccolta e la trasmissione delle informazioni relative al consenso in tutta la catena pubblicitaria. Sono tutti coinvolti, quindi: editori, inserzionisti e, naturalmente, gli operatori del settore AdTech. Per gli editori, la conformità al TCF (onde evitare di non riuscire più a dichiarare i propri inventari) presuppone l’implementazione di una CMP (Consent Management Platform) conforme alla versione 2 del TCF e riconosciuta come tale dall’IAB.
Perché questa versione 2 del TCF? Una prima parte della risposta è racchiusa nelle novità annunciate. Ne citiamo almeno 3:
- 1) Il numero delle finalità (“purposes”) proposte passa da 5 a 12 (tralasciando alcune sottigliezze). Obiettivo: offrire più flessibilità e precisione per definire lo scopo di una raccolta di dati. Queste finalità possono essere raggruppate in “stack” quando vengono comunicate all’utente. Più in generale, il TCF v2 consente una maggiore granularità della configurazione per gli editori. Per ciascuna finalità, e per ciascun partner, gli editori possono quindi limitare i trattamenti di dati autorizzati.
- 2) Questa versione del TCF introduce la nozione di interesse legittimo. Grazie ad essa, un editore può, per impostazione predefinita e per determinate finalità, impostare il consenso come approvato sulla base del proprio interesse legittimo. E l’utente può opporsi, informazione che verrà poi trasmessa a tutta la catena. La mancata considerazione dell’interesse legittimo era ritenuta una delle principali lacune del TCF.
- 3) Dato che il suo obiettivo è garantire all’utente una gestione trasparente del consenso e un controllo globale e al contempo dettagliato delle autorizzazioni concesse, il TCF specifica in modo molto preciso la dinamica del consenso. Le finalità raggruppate (i famosi stack) devono essere mostrate nella prima schermata, le finalità dettagliate nella seconda, l’elenco dei fornitori nella terza. Sebbene non sia obbligatorio integrare un pulsante “Rifiuta tutto” sulla prima schermata, l‘IAB consiglia vivamente di adottare una simmetria delle call-to-action, come ad esempio “Accetta tutto” e “Personalizza”. Su questo argomento, l’IAB intende aderire alle raccomandazioni delle istanze nazionali, la CNIL dunque, per quanto riguarda la Francia.
La grande novità del TCF v2: l’adozione da parte di Google
Questo è quanto, per ciò che concerne le principali novità evidenziate dall’IAB. Limitarsi a questo significherebbe tuttavia dimenticare l’altra grande novità di questo TCF v2: la sua adozione da parte di Google, che è stato coinvolto nella sua elaborazione. Non era stato così nella prima versione. In altre parole, il TCF v1 assomigliava a quelle leggi che, in mancanza di un decreto attuativo, restano prive di effetto… Difficile, infatti, standardizzare un mercato quando il principale operatore non aderisce.
Si può dunque affermare che oggi tutto va per il meglio? Che il dialogo attorno al consenso tra gli operatori del settore della pubblicità digitale si svolge in maniera fluida? Niente affatto. E per vari motivi.
Implementazione del TCF v2: il diavolo si nasconde nei dettagli
Innanzitutto, se Google ha consacrato il TCF v2, il diavolo si nasconde nei dettagli, come spesso accade. Se un editore, per lavorare con Google, deve ricorrere a una CMP conforme al nuovo TCF, dovrà anche prestare attenzione a vari aspetti. Come ad esempio al fatto che, se la finalità 1 (archiviazione delle informazioni sul dispositivo) non è consentita, non sarà possibile diffondere la pubblicità tramite Google. Tra le restrizioni applicate da un editore ad alcune finalità e le aspettative di Google, è possibile anche che ci siano delle contraddizioni. A questo si aggiunge un’implementazione del TCF da parte di Google che genera errori e dibattiti.
Per gli editori, non è il momento di festeggiare. Innanzitutto perché le tempistiche associate al TCF 2.0, che non presenta alcuna retrocompatibilità con la versione 1, hanno messo i team sotto pressione, in particolare nel periodo estivo. Tempi talvolta giudicati poco compatibili con una specifica tecnica percepita come eccessivamente complessa.
TCF v2: un consenso più chiaro per il grande pubblico?
Altro motivo di recriminazione: l’esperienza utente. L’IAB ha fatto molta strada per quanto riguarda le sue specifiche, in quanto anche i testi da visualizzare sui diversi livelli dell’interfaccia sono redatti nelle varie lingue. Testi sui quali le eventuali iterazioni, da sottoporre all’IAB, richiedono tempo. Soprattutto, la UX specificata attraverso il TCF non è sempre semplice da riconciliare con gli interventi che alcuni editori hanno potuto, a loro volta, effettuare fino a questo momento.
Resta LA domanda: se il settore della pubblicità digitale, malgrado le difficoltà di attuazione, ha tutto da guadagnare ad allinearsi a un protocollo unico per la raccolta e la trasmissione dei consensi, cosa ci guadagnano gli utenti? In altre parole: l’esperienza derivante dall’implementazione del TCF v2, che vediamo attivarsi attualmente attraverso il rinnovo delle schermate di consenso, rende la lettura delle scelte proposte più digeribile per il grande pubblico? Le risposte arriveranno tra qualche mese, alla lettura delle statistiche di frequentazione del centro preferenze…
Per implementare il TCF v2, scegli TrustCommander, la CMP approvata dall’IAB.
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