Ci siamo finalmente: dopo essere stata riprogrammata a più riprese, il 30 settembre la versione 1 del Transparency Consent Framework (TCF) cede definitivamente il posto alla versione 2. Formulato dall’IAB, il TCF si propone di standardizzare la raccolta e la trasmissione delle informazioni relative al consenso in tutta la catena pubblicitaria. Sono tutti coinvolti, quindi: editori, inserzionisti e, naturalmente, gli operatori del settore AdTech. Per gli editori, la conformità al TCF (onde evitare di non riuscire più a dichiarare i propri inventari) presuppone l’implementazione di una CMP (Consent Management Platform) conforme alla versione 2 del TCF e riconosciuta come tale dall’IAB.
Perché questa versione 2 del TCF? Una prima parte della risposta è racchiusa nelle novità annunciate. Ne citiamo almeno 3:
Questo è quanto, per ciò che concerne le principali novità evidenziate dall’IAB. Limitarsi a questo significherebbe tuttavia dimenticare l’altra grande novità di questo TCF v2: la sua adozione da parte di Google, che è stato coinvolto nella sua elaborazione. Non era stato così nella prima versione. In altre parole, il TCF v1 assomigliava a quelle leggi che, in mancanza di un decreto attuativo, restano prive di effetto… Difficile, infatti, standardizzare un mercato quando il principale operatore non aderisce.
Si può dunque affermare che oggi tutto va per il meglio? Che il dialogo attorno al consenso tra gli operatori del settore della pubblicità digitale si svolge in maniera fluida? Niente affatto. E per vari motivi.
Innanzitutto, se Google ha consacrato il TCF v2, il diavolo si nasconde nei dettagli, come spesso accade. Se un editore, per lavorare con Google, deve ricorrere a una CMP conforme al nuovo TCF, dovrà anche prestare attenzione a vari aspetti. Come ad esempio al fatto che, se la finalità 1 (archiviazione delle informazioni sul dispositivo) non è consentita, non sarà possibile diffondere la pubblicità tramite Google. Tra le restrizioni applicate da un editore ad alcune finalità e le aspettative di Google, è possibile anche che ci siano delle contraddizioni. A questo si aggiunge un’implementazione del TCF da parte di Google che genera errori e dibattiti.
Per gli editori, non è il momento di festeggiare. Innanzitutto perché le tempistiche associate al TCF 2.0, che non presenta alcuna retrocompatibilità con la versione 1, hanno messo i team sotto pressione, in particolare nel periodo estivo. Tempi talvolta giudicati poco compatibili con una specifica tecnica percepita come eccessivamente complessa.
Altro motivo di recriminazione: l’esperienza utente. L’IAB ha fatto molta strada per quanto riguarda le sue specifiche, in quanto anche i testi da visualizzare sui diversi livelli dell’interfaccia sono redatti nelle varie lingue. Testi sui quali le eventuali iterazioni, da sottoporre all’IAB, richiedono tempo. Soprattutto, la UX specificata attraverso il TCF non è sempre semplice da riconciliare con gli interventi che alcuni editori hanno potuto, a loro volta, effettuare fino a questo momento.
Resta LA domanda: se il settore della pubblicità digitale, malgrado le difficoltà di attuazione, ha tutto da guadagnare ad allinearsi a un protocollo unico per la raccolta e la trasmissione dei consensi, cosa ci guadagnano gli utenti? In altre parole: l’esperienza derivante dall’implementazione del TCF v2, che vediamo attivarsi attualmente attraverso il rinnovo delle schermate di consenso, rende la lettura delle scelte proposte più digeribile per il grande pubblico? Le risposte arriveranno tra qualche mese, alla lettura delle statistiche di frequentazione del centro preferenze…